Marina Abramovich e l’ideologia fiorentina della contemporaneità
Adesso tutti trattano l’Abramovich come una specie di diva: mostra in palazzo Strozzi, foto con le installazioni, interviste e gadget. Io ci sono stato, più di vent’anni fa, a una Biennale, dove lei raschiava con una spazzola di ferro un mucchio di ossa bovine. Era l’epoca della guerra tra Serbia e Croazia e alle spalle della performer scorrevano immagini dei suoi genitori serbi e di lei stessa. Lei se ne stava lì seria e paziente a ripulire quelle ossa al caldo di uno stanzone della Biennale per sei ore al giorno. Il tanfo era insopportabile e lei stessa si sentì male. La performance era Balkan Baroque, una potente denuncia di quanto stava accadendo nel suo Paese d’origine. Ecco avrei voluto che Firenze avesse ospitato allora una retrospettiva dell’artista, come avrei voluto che avesse ospitato Bill Viola nei primi anni Ottanta, quando il video artista, assolutamente ignorato, frequentava altri “pazzi” come lui a Firenze sperimentando le nuove frontiere dell’immagine. Ecco, quello che in fondo m’infastidisce, è tutto questo battage inutile intorno alla Abramovich, questo “aplomb” culturale della città che nasconde, neanche troppo, un atteggiamento radicatamente provinciale, nonché la paura del nuovo (cioè che il nuovo non sia abbastanza remunerativo in termini economici e d’immagine). Quello che non va è che a Firenze a livello espositivo non si fa un lavoro di ricerca, non fanno proposte: semmai s’innalzano monumenti al già noto, a chi conta di più nel mercato, spacciandolo per apertura al contemporaneo. S’ignorano artisti locali per non sembrare provinciali e poi ci si prostra davanti all’ artistar del momento. Perché la Abramovich e non Stelarc, per esempio? Troppo scioccante? Perché non Nina Sellars? Perché non abbastanza patinati, forse, o semplicemente non abbastanza famosi. Ma sappiamo come vanno queste cose. Quindi, quando sogniamo una Firenze diversa non pensiamo solo alle buche, alla tranvia o alle malefatte della nostra amministrazione; pensiamo anche a questo.
Nicola Nuti